16.01.09
Su laicità e religione in Italia: una proposta libertaria
di FRANCESCO GUERRA
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1. A poco tempo fa, risale la pubblicazione di un documento della Congregazione per la dottrina della fede, la quale, dopo venti anni di presidenza ratzingeriana, vede oggi a capo il cardinale americano William Levada. Tale documento intende precisare alcune ‘cattive’ interpretazioni in cui, nel corso del tempo, sarebbe incorso il Concilio vaticano II.
Venendo alla sostanza, il testo della Congregazione per la dottrina della fede, che ha ricevuto l’approvazione del papa, si concentra sull’affermazione della Lumen gentium, costituzione apostolica del Concilio vaticano II. Qui si dice che la Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa cattolica. La presenza del verbo sussiste aveva sempre lasciato intendere che oltre alla chiesa cattolica ci fosse spazio anche per altre chiese cristiane. Questa interpretazione, nel testo in questione, è stata respinta con forza e in via definitiva.
Nella nota esplicativa, inoltre, emergono altri due elementi già richiamati nel dibattito teologico dei nostri giorni. Il primo è il riferimento alla Dominus Iesus, un testo che nel 2000 fu curato proprio dall’allora cardinale Ratzinger, dove si afferma che la salvezza è raggiungibile solo all’interno della Chiesa cattolica, mentre l’altro riguarda il teologo della liberazione Leonardo Boff chiamato in causa, potremmo dire, a titolo di esecutore materiale della tanto ‘travisata’ Lumen gentium, poiché alla metà degli anni Ottanta aveva affermato che la chiesa di Cristo poteva sussistere in altre chiese cristiane.
Pertanto i punti in questione decisivi sono che la chiesa di Cristo non sussiste in chiese diverse da quella cattolica e, fatto ben più rilevante, che la salvezza non si dà se non all’interno della Chiesa cattolica.
La prima domanda che può esser posta è: perché per parlare del rapporto tra laicità e religione sono state prese le mosse da questo documento pubblicato dalla Congregazione per la dottrina della fede? E ancora, non era preferibile partire da questioni più attinenti a questo rapporto che, nel nostro paese come all’estero, non hanno mancato di attirare l’attenzione dei lettori?
Comincerò dalla seconda domanda per poi risalire. Sì, senz’altro era preferibile per parlare del rapporto tra laicità e religione muovere da eventi più appetibili, quali per esempio il caso di Piergiorgio Welby. Rispondendo al primo quesito, affermare che l’unico depositario del messaggio cristiano, e addirittura della salvezza, è la Chiesa cattolica non può significare altro se non che la verità a cui l’uomo cristiano ha accesso può ritrovarsi solo in questa Chiesa.
Il dato più sconcertante in una posizione siffatta investe il piano delle conseguenze che l’enunciazione di questo punto di vista comporta. Sostenere, infatti, che la verità, qui intesa in senso totalizzante e metafisico, è permessa solo a colui il quale si rifà al messaggio cattolico significa escludere in un sol colpo tutte le altre chiese cristiane e le diverse confessioni religiose, pregiudicando sul nascere ogni possibilità di ecumenismo. Significa, parimenti, che Benedetto XVI non intende confrontarsi con la questione del relativismo, né tanto meno con tutte quelle posizioni, laiche e non, che individuano nel riconoscimento del pluralismo la sola base possibile per una sana e pacifica convivenza tra gli individui. A tutto questo, e tra le mille peripezie provocate dalla rinascita su scala mondiale dei fondamentalismi, papa Ratzinger reagisce non depotenziando il proprio punto di vista, ma tutto al contrario puntando, di nuovo, sulla forza, qui metaforizzata dalla riaffermazione della propria identità (1). Un’affermazione che si traduce in un tracciar confini, all’interno dei quali si troverà un Noi, la comunità dei fedeli, a scapito di tutti gli altri, che, per i motivi più disparati, sono rimasti fuori del circolo degli ‘eletti’(2).
Ciò nonostante, per ben comprendere la posizione assunta in questi anni da Benedetto XVI e, al tempo stesso, al fine di mettere a fuoco la tematica che ci siamo proposti di affrontare, è necessario fare un passo indietro fino al 2004, anno nel quale venne pubblicato in Germania, con il titolo Was die Welt zusammenhält. Vorpolitische moralische Grundlagen eines freiheitlichen Staates, il dialogo su ragione e fede tra Jürgen Habermas e Joseph Ratzinger (3).
L’intervento dell’allora cardinale muove dal riconoscimento del fatto che la società post-secolare esprime «la nascita di una società globale, in cui i singoli poteri politici, economici e culturali sempre più fanno riferimento l’uno all’altro e nei loro differenti spazi vitali entrano in contatto e si permeano vicendevolmente […]» e in secondo luogo «lo sviluppo delle possibilità dell’essere umano – il potere di creare e di distruggere – le quali sollevano la questione dei controlli giuridici e morali sul potere molto oltre rispetto a quanto siamo stati abituati finora" (4). Ne risulta, secondo Ratzinger, che occorre in primis trovare dei fondamenti etici in grado di condurre le culture sulla giusta strada, così come si richiede una qualche forma di delimitazione del potere che venga ad esser dotata di legittimazione giuridica (5). Tali fondamenti sono tanto più necessari dal momento che l’interculturalità ha coinciso con un effettivo processo di mescolanza, venendo a minare alla radice le singole certezze etiche di gruppi e individui (6).
Pertanto ciò che mosse le analisi di Ratzinger in questa sede, può legarsi con quanto di recente sostenuto nel documento pubblicato dalla Congregazione per la dottrina della fede. Al riconoscimento della reciproca penetrazione tra culture, infatti, il dialogo con Habermas risponde con la riproposizione di uno schema identitario forte, il quale sembra costituirne un efficace antidoto (7). L’altro punto, qui sottolineato, investe la visione ratzingeriana dell’uomo. Presupposto necessario della sua richiesta di controlli e delimitazione dell’umano potere di creare o anche, come dice, di distruggere sembra essere una visione antropologica radicalmente negativa, ‘un’antropologia della caduta’, che fa coincidere la libertà degli esseri con la loro inevitabile distruzione reciproca (8). In tal modo questa posizione può legittimamente pretendere che si diano le condizioni per porre un freno, controllando e vincolando, al potere smisurato dell’uomo, vale a dire, da ultimo, alla sua libertà.
Ratzinger, infatti, sembra richiedere dei saldi fondamenti etici riconosciuti su base generale e, al tempo stesso, delle istanze autoritative in grado di far rispettare simili fondamenti (9). A questa posizione è ragionevole far notare che l’operazione più complicata sarebbe proprio quella di riconoscere i soggetti in grado di stabilire questi fondamenti etici; in fase legislativa chi sarebbe chiamato a svolgere questo compito? Ipoteticamente si dovrebbe pensare che, poiché a questi fondamenti si è riconosciuto l’attributo della generalità, occorrerebbe coinvolgere, nella loro formulazione, tutti i soggetti che costituiscono le diverse anime della società. Ne segue, credo, che non sarebbe solamente un discorso limitato ad una dialettica tra Stato e Chiesa cattolica, ma dovrebbe essere aperto alle altre chiese cristiane, come pure alle più diverse confessioni religiose in quanto, tanto le prime che le seconde, rappresentanti di individui. Ritengo, tuttavia, che seguendo questa strada più che arrivare a stilare una lista di precetti su ciò che è buono e giusto fare e ciò che non lo è, si finirebbe in un caos di proposte e rifiuti senza alcuna possibilità di trovare un accordo. Ora, se a quanto scritto sopra si obietta che all’interno di un ordinamento statale liberale la fase legislativa pertiene ad un Parlamento che è stato eletto solo dai cittadini di quello stesso Stato, il problema nella sostanza rimane invariato; infatti, anche escludendo le altre confessioni religiose, moltissimi cittadini italiani sono di fede cristiana, pur non essendo inquadrabili negli spazi della Chiesa cattolica, mentre altri, pur essendolo, su determinati punti possono essere in legittimo disaccordo con quanto è affermato dalle gerarchie ecclesiastiche cattoliche. Io credo che qualora quei fondamenti fossero trovati, questi finirebbero per essere con ogni probabilità il frutto di un’opzione teoretica arbitraria che, individuando nelle fila della Chiesa cattolica un numero maggiore di fedeli, culminerebbe nel riconoscimento del suo primato a scapito di tutte le altre, ridotte alla condizione di silenziose minoranze.
Esemplificativo di quanto appena osservato, può essere il dibattito che si è aperto nel nostro paese a proposito dell’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche. Tralasciamo la cronaca dei fatti e concentriamoci sul punto nevralgico della questione, ossia, se sia giusto o meno, viste le mutate condizioni culturali italiane a seguito dell’aumento dell’immigrazione proveniente dall’estero, mantenere nelle scuole la croce che raffigura il sacrificio di Cristo.
I rappresentanti di altre comunità religiose hanno fatto giustamente notare come quel simbolo ai loro occhi non poteva esprimere alcun significato trascendente, mentre da altre posizioni ci si è interrogati sul motivo per il quale uno Stato che si definisce laico è tenuto a mantenere all’interno delle proprie scuole un simbolo così evocativo come la croce. In questo caso la soluzione che potrebbe prospettarsi non sarebbe priva di paradossalità. Proprio alla luce dell’interculturalità, infatti, si dovrebbe permettere a ciascuna confessione religiosa, diversa dalla cristiana, di esprimere la sua fede a livello visivo attraverso l’esposizione dei propri simboli religiosi ogni volta che ciò è permesso ai cattolici. Così facendo, tuttavia, ci troveremmo di fronte ad una sorta di rassegna universale di oggetti appartenenti alle diverse confessioni in ogni aula scolastica con buona pace del laicismo. Di nuovo, allora, si leverebbe qualche voce a chiedere perché uno Stato laico permette che un luogo civile come la scuola si trasformi in un ambiente connotato sotto il profilo religioso?
Un’obiezione di tal genere non sarebbe per nulla peregrina, al contrario essa inquadrerebbe la reale struttura del problema; infatti, se uno Stato riconosce la libertà di culto al suo interno, ciò significa che questo stesso Stato dovrà parimenti riconoscere anche nella pratica i luoghi deputati all’esercizio di tale culto senza interferire nel loro svolgimento. Nel caso della scuola il riconoscimento dell’ambiente diviene anche momento di identificazione di valori legati a quell’ambiente. Se così è, pertanto, se si ammette che la scuola è un luogo pubblico e in quanto tale precipuamente legato allo statualità pubblica, si dovrà al tempo stesso ravvisare che coloro i quali vivono quel luogo, sono tenuti a riconoscervi come punto di riferimento solamente lo Stato. Da ultimo, ciò non significa altro se non che nelle scuole pubbliche in tempi di interculturalità si dovrebbe evitare di esporre simboli che potrebbero essere lesivi della sensibilità religiosa di chi li riconosce nel loro valore oggettuale e simbolico, ma non trascendente (10).
L’esempio della scuola, penso che in piccolo abbia aiutato a mettere a fuoco quanto io ritengo essere il nocciolo del problema. Qui non si tratta di capire come arrivare a stabilire validi fondamenti etici in grado di conciliare laicità e punto di vista cattolico, prima che religioso. Ciò che più stupisce dei dibattiti contemporanei su tali argomenti, è la convinzione, a dir il vero, un poco ingenua, di credere di poter ‘rappacificare’ orizzonti tra loro così differenti (11).
L’ingenuità è comprovata dal fatto che in simili formulazioni si rimane sul piano teorico della questione, arrivando anche a rilevanti concessioni da parte religiosa come laica, ma sempre evitando di toccare le singole questioni attraverso una loro tematizzazione per via empirica. Intendo dire che se il problema dei rapporti tra laicità e religione viene affrontato riconoscendo ogni volta l’esistenza di contesti nei quali è possibile creare una prolifica sinergia tra le due posizioni e, al tempo stesso, immaginando di non sacrificare nulla di decisivo in ciascuna delle due, penso che si resti ad un livello di ragione astratta, là dove nella prassi quotidiana la relazione tra posizioni laiche e religiose risulta essere sovente conflittuale.
I problemi che si connettono a questo rapporto, infatti, sono certamente meritevoli di trattazioni ad ampio raggio, ma al tempo stesso sembrano richiedere in primis risposte ai singoli casi specifici. Per esempio, se parliamo d’eutanasia, quale conciliazione può trovarsi tra una posizione laica ed un’altra che ritiene che la vita sia sacra, a prescindere dalle condizioni fisiche o psichiche nelle quali un individuo può viverla? Quale etica comune può essere proposta? E di conseguenza, quale atteggiamento, sotto il profilo legislativo, dovrà assumere uno Stato di fronte a tale situazione? Può rimanere laico senza violare il sentire religioso di così tante persone? Ma al tempo stesso è rispettata la propria laicità là dove, per non creare malcontento, questo Stato, non decidendo, decida di lasciare un vuoto legislativo su determinate questioni, abbandonando di fatto l’individuo morente ‘in balia della fortuna’ degli eventi (12)?
Solo trovando risposta a simili interrogativi, si potrebbe, io credo, ripartire per una effettiva contestualizzazione dei rapporti tra laici e religiosi nel nostro paese, ma per questo sarebbe al tempo stesso necessario mettere in conto la possibilità che l’affermazione delle rispettive posizioni può comportare una rottura, piuttosto che la reciproca e pacifica penetrazione dei differenti punti di vista (13).
2.
Nel suo dialogo con Habermas, Ratzinger si è posto il problema del momento deliberativo all’interno di uno Stato democratico. La tesi da lui sostenuta partiva dal riconoscimento che difficilmente in democrazia si creano le condizioni per scelte politiche unanimi. Pertanto i soli strumenti atti a condurre ad una scelta saranno la delega della rappresentanza e la decisione a maggioranza. Su questo punto, tuttavia, il discorso dell’allora cardinale subisce una sensibile, ma non inaspettata, virata.
Ratzinger, infatti, fa proprio un antico argomento dei critici della democrazia, quello secondo il quale, in fin dei conti, anche le maggioranze possono commettere errori assai gravi. «La storia – scrive – lo dimostra in modo più che evidente: quando una maggioranza – per quanto preponderante – opprime con norme persecutorie una minoranza, per esempio, religiosa o etnica, si può parlare ancora di giustizia o in generale di diritto? Il principio di maggioranza lascia pertanto sempre aperta la questione dei fondamenti etici della legge: la questione se non esista qualcosa che non può mai diventare legittimo, qualcosa dunque che di per sé rimane sempre un’ingiustizia, oppure al contrario anche qualcosa che per sua natura è legge immutabile, a prescindere da ogni decisione della maggioranza, e che da essa deve essere rispettata» (14).
Questo qualcosa, a cui Ratzinger fa riferimento, sono gli elementi normativi presenti nelle differenti dichiarazioni dei diritti umani avutesi nel corso dell’epoca moderna. La peculiarità di questi valori sarebbe costituita dal fatto di provenire dalla stessa natura umana e, in quanto tali, sarebbero da ritenersi inattaccabili da tutti coloro che appartengono al genere umano.
Il primo rilievo che si può muovere a queste tesi riguarda proprio il nucleo vitale del concetto politico di democrazia, vale a dire che il sistema democratico non è a priori il migliore, quanto quello che, nel corso del tempo, ha assicurato maggiore stabilità e un esteso riconoscimento delle diverse posizioni in campo. Ciò non toglie che vi possano essere decisioni discutibili prese a maggioranza, ma la dittatura della maggioranza è cosa ben differente. La Costituzione italiana, dopotutto, fu elaborata anche in funzione di argine contro il rischio di eventuali scivolamenti autoritari del nostro ordinamento democratico.
Oltre a ciò i diritti umani ai quali Ratzinger si richiama per supportare la sua tesi sono un argomento, invero, più problematico che risolutivo. Il punto critico è che tali dichiarazioni, come pure l’epoca moderna entro la quale Ratzinger le colloca, sono sorte in un quadro di rapporti di potere sostanzialmente eurocentrico, tant’è che la questione se possono realmente darsi diritti umani validi universalmente è oggi un tema ampiamente dibattuto da posizioni spesso in stridente contrasto tra loro. Proprio l’interculturalità sembra richiedere un approccio volto ad esaltare la pluralità di posizioni, sempre più diffusa nelle nostre società, senza andare a ricercare anacronistiche e pericolose fondazioni etiche di diritti umani universali. In questo caso ciò che sembra far da sfondo alle tesi di Ratzinger è quanto in campo bioetico si usa chiamare la teoria del pendio scivoloso; ciò significa che se la civiltà occidentale viene meno al suo compito di fondazione etica, questa sarà sopraffatta da un deleterio anarchismo dei valori e cadrà sotto i colpi del nichilismo più letale. Personalmente ritengo che il riconoscimento del valore relativo di ogni cultura sia un presupposto necessario per aprirci all’alterità, verso quella reciproca comprensione che, sola, può renderci capaci, come ben sapeva Malinowski, di assumere il punto di vista dell’altro (15). Se l’obiettivo, non privo di utopia, è quello di un dialogo universale dell’umanità, il passaggio necessario dovrà essere costituito dal riconoscimento sostanziale, non solo formale, delle differenti posizioni in campo (16).
D’altro canto anche la tesi del pendio scivoloso sembra perdere forza; infatti, se si accetta la posizione del pluralismo, risulterà altrettanto vero che uno Stato sarà chiamato a riconoscere dei momenti che sono espressione del tacito patto che ne rende possibile l’esistenza. Lo Stato, incarnando le differenti volontà presenti, è chiamato ogni volta anche ad incanalarle all’interno di un progetto che permetta ad ognuno di vivere liberamente le proprie convinzioni senza essere intralciato in questo da chicchessia, ma per converso, egli sarà chiamato a riconoscere pari diritti a colui che è portatore di una visione del tutto distante dalla sua. Un’esistenza che sia il più possibile pacifica richiede che le parti coinvolte nel gioco democratico si depotenzino vicendevolmente al fine di scambiarsi contenuti, muoversi critiche e far infiammare il proprio animo se necessario. Per far questo, tuttavia, occorrerebbe creare e rispettare uno spazio, che potrebbe definirsi della ‘convivenza tra diversi’, nel quale lo Stato laico, unico soggetto in grado di rappresentare tali diversi, divenga, al tempo stesso, artefice e custode della diversità (17). Uno spazio pubblico in cui si riconosca l’indifferibile diritto, plasmato dagli uomini e dalla loro storia piuttosto che dalla natura, di ogni individuo a decidere in maniera del tutto autonoma sulla propria vita come sulla propria morte. Uno spazio pubblico dove sia messa al centro la prerogativa appartenente ad ognuno di non perdere in nessun momento della vita la dignità di essere volente, senziente e giudicante. Uno spazio pubblico in virtù del quale, pur essendo lasciato ad ogni soggetto il diritto di autodeterminarsi come meglio crede, non sia permesso ad una minoranza, nel nostro caso in particolare quella cattolica, per quanto significativa e radicata, di ostacolare le scelte di un Parlamento, espressione di un punto di vista pluralistico, e tantomeno di influenzarne le decisioni in fase deliberativa attraverso “scomuniche” a mezzo stampa. Perché in tal modo, verrebbe da chiedersi, contrariamente a quanto supposto da Ratzinger, se il pericolo non sia costituito proprio dal ripresentarsi di una scaltra versione religiosa e massmediatica di dittatura della minoranza (18).
La creazione di un tale spazio sembra essere una necessità sempre meno differibile nel nostro paese. Si tratta di comprendere come la laicità non veicola punti di vista di natura filosofica che separerebbero i credenti dai non credenti. Declinare quanto detto finora secondo queste categorie appare, almeno allo scrivente, un modo strumentale di affrontare la questione. Il discrimine non è rappresentato, contrariamente a quanto si vuol far credere da parte delle gerarchie ecclesiastiche cattoliche, da divergenze di natura teoretica, sebbene queste non manchino, quanto da una palese invasione di campo da parte del potere religioso in questioni che, di fatto, non gli competono.
Ciò detto, se fosse un problema di natura filosofica, investirebbe senz’altro l’ambito della riflessione politica. La laicità, seguendo il ragionamento sin qui proposto, verrebbe a coincidere con una sorta di contratto sociale all’interno del quale i contraenti, riconoscendo la relatività dei punti di vista espressi, scelgono di affidare ad un soggetto che tutti li rappresenta, come lo Stato, il compito di ‘normare’ per via legislativa le richieste che provengono da questo stesso corpo sociale (19). Il Parlamento, le varie forme di democrazia diretta, le manifestazioni di persone che scendono spontaneamente in piazza per reclamare dei diritti o per chiedere il rispetto di quelli già presenti, sono solo alcuni degli strumenti attraverso i quali si può dar vita ad uno spazio pubblico che si proponga di allargare in maniera sensibile la sfera dei diritti degli individui, mettendo le basi per quella sempre più doverosa connessione tra piano formale e sostanziale della democrazia (20).
Proprio alla luce di simili argomenti l’intervento diretto della Chiesa cattolica sul tema dei diritti civili nell’odierno dibattito politico non può che apparire una intollerabile quanto violenta ingerenza. Le idee cattoliche, infatti, non soffrono nel nostro paese di un deficit di rappresentanza tale da motivare gli ormai quotidiani moniti provenienti dal Vaticano. Ma forse le cose non stanno proprio così. Il fatto che in Parlamento, da entrambe le parti, siedano persone di comprovata fede cattolica, le quali si mostrano politicamente rispettose delle proprie idee, non sembra essere motivo sufficiente per la Chiesa per non intervenire.
Il punto allora non è una carenza rappresentativa cattolica in Parlamento quanto semmai la percezione di ciò da parte della S. Sede. Penso siano da ricercarsi i motivi di una simile percezione che, è bene ricordarlo, non è sempre stata una costante delle gerarchie ecclesiastiche. La questione, dunque, sembra flettere sul piano politico, lasciando di nuovo da parte l’aspetto filosofico. Dopo il terremoto politico degli anni Novanta e la conseguente frammentazione della Democrazia Cristiana, la Chiesa cattolica si è sentita politicamente scoperta e, al tempo stesso, minacciata da posizioni trasversali provenienti dalla politica come dalla società civile, da destra, seppur minoritarie, e da sinistra, che avevano di mira una sostanziale estensione della sfera dei diritti civili garantita ad ogni individuo. A quanto detto va aggiunta una situazione internazionale che è andata mutando rapidamente e in misura sensibile e dove l’elemento dell’interculturalità sembra necessitare sempre più di stati laici che su basi minime, ma definite, permettano a ciascuno di pensare e praticare le proprie convinzioni in totale autonomia senza entrare in conflitto con la libertà altrui (21).
Per tutto ciò, io credo che solo riconoscendo la connessione tra affermazione della laicità all’interno dello Stato e imprescindibile tutela del pluralismo, sarà possibile rimettere sui giusti binari il dibattito inerente ai rapporti tra Stato e Chiesa, restituendo a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio, come, parimenti, dare nuovo slancio a quella categoria del politico che nel nostro paese, anche a causa dei veti imposti dalla S. Sede, sembra essersi ridotta, nel migliore dei casi, alla pura e semplice gestione della cosa pubblica, ad una democrazia rispettata solo nel suo aspetto amministrativo e procedurale, ma pericolosamente violata per quanto riguarda la sfera dei diritti individuali e sociali che un paese civile dovrebbe garantire non solo ai propri cittadini, ma a tutti i soggetti che abitano il suo territorio.
Con una congrua immagine plastica presa a prestito dal dibattito bioetico, la quale focalizza per via concreta l’attuale situazione italiana, si può dire che «oggi il confine passa tra il diritto della persona di disporre incondizionatamente del proprio corpo e delle sue risorse generative e la necessità di una normativa generale che impedisca effetti degenerativi» (22). Entro gli estremi delineati da queste parole, si potrebbe configurare la possibilità per la creazione di quello spazio pubblico, dove le leggi volute dal Parlamento al pari degli organi della giustizia chiamati a metterle in pratica, e di ogni soggetto, cittadino e non, possano finalmente condurre questo paese fuori dalla minorità e lontano da istanze autoritative eteronome di cui, da individui liberi, non abbiamo mai sentito alcun bisogno.
Note
(1)Il tema dell’identità, tuttavia, non sembra essere solo una prerogativa religiosa. In una recente intervista l’artista olandese Aernout Mik rileva come nella modernità «[…] le relazioni sono diventate ormai insicure; in parte, questo è il risultato della scomparsa del “welfare state”, della fine delle utopie moderniste e della paura che abbiamo in occidente dell’immigrazione […]. Da questa prospettiva, possiamo notare lo sforzo europeo di restaurare le identità. Il tentativo di riarticolare una storia nazionale, anche dal punto di vista culturale, è in primo luogo una conferma di quella scomparsa». A. Di Genova, Quando la globalizzazione sbarca alla Biennale, in Il manifesto, 26 luglio 2007, p. 16.
(2) Cfr. le penetranti analisi svolte da J. S. Mill, Saggio sulla libertà, Milano, 2002, pp. 10-11.
(3) A proposito di questo dialogo, denso di spunti interessanti tanto da una parte quanto dall’altra, Bosetti nella sua introduzione scrive che «un eminente filosofo del nostro tempo […] e un eminente cardinale […] concordano in queste pagine sull’idea che ragione e fede debbano dare luogo a un dialogo, che apprendano qualche cosa l’una dall’altra, che si pongano l’una all’altra come limite […] e che in questa correlazione si alimentino beneficamente come forze complementari». G. Bosetti, Idee per una convergenza «postsecolare», in J. Habermas – J. Ratzinger, Ragione e fede in dialogo, a cura di G. Bosetti, Venezia, 2005, p. 7. Parimenti ritengo che il titolo scelto non renda, da ultimo, ragione della complessità propria della lingua tedesca. Volendo tradurre alla lettera, il titolo del libro sarebbe: Che cosa tiene insieme il mondo. Fondamenti morali prepolitici di uno stato libero. Specificamente in merito alla posizione ratzingeriana, si veda Ibidem, p. 11.
(4) Ibid., p. 65.
(5) Ibid.
(6)
Cfr. Ibid., p. 15.
(7)
Come osserva Rusconi «il “mondo cattolico” e la Chiesa non solo mantengono il loro posto, ma si sentono sollecitati ad assumere un nuovo ruolo davanti all’effettivo dispiegarsi della sempre annunciata fine delle ideologie, all’indebolimento di tutte le culture politiche e delle organizzazioni partitiche tradizionali e dinanzi alla domanda di orientamento che viene da una società impegnata a fare i conti con questioni complesse e inattese (“bioetica” è il termine che sintetizza tutta questa problematica)». G. E. Rusconi, Non abusare di Dio, Milano, 2007, p. 43.
(8) A tal proposito Ratzinger scrive che «[…] l’uomo è ora in grado di creare esseri umani, per così dire di produrli in provetta. L’uomo diventa un prodotto, e di conseguenza cambia radicalmente l’atteggiamento dell’uomo verso se stesso. Non è più un dono della natura o del Dio creatore; è prodotto di se stesso. […] La tentazione di creare infine l’uomo perfetto, di condurre esperimenti sugli esseri umani, di vedere gli esseri umani come spazzatura e di metterli da parte, non è una fantasticheria di moralisti nemici del progresso. […] Alla fin fine, anche la bomba atomica è un prodotto della ragione e l’allevamento e la selezione di esseri umani sono stati ideati dalla ragione». J. Habermas – J. Ratzinger, Ragione e fede…, cit., p. 72. Il passo appena citato è significativamente denso sotto il profilo concettuale poiché «[…] a ben vedere ciò che accomuna il filosofo laico e gli uomini di Chiesa, a proposito delle biotecnologie per esempio, non è il linguaggio “tradotto” ma la comune convinzione che le scienze biologiche e le loro tecniche “fabbricano”, “oggettivizzano” l’uomo. È la tesi della scienza come “tecnicizzazione della vita umana”. Sul contrasto tra l’uomo “cresciuto” e l’uomo “prodotto” Habermas ha scritto pagine che sono in sintonia con Ratzinger, che non si limita ad affermare “che la scienza come tale non può generare ethos” ma denuncia che “l’uomo diventa prodotto così da cambiare alla radice il rapporto dell’uomo con se stesso. Non è più un dono della natura o di Dio creatore, ma suo proprio prodotto». G. E. Rusconi, op. cit., p. 158. Sulle ricadute pratiche e legislative di una prospettiva che intende la vita come un dono naturale o divino, ha svolto brillanti considerazioni E. Lecaldano, Un’etica senza Dio, Roma-Bari, 2006, p. IX.
(9)
«Come ultimo elemento del diritto naturale, che vuole essere il più profondamente possibile un diritto razionale […] sono rimasti i diritti umani. […] Forse oggi la teoria dei diritti umani dovrebbe essere integrata da una dottrina dei doveri umani e dei limiti umani, e ciò potrebbe però aiutare a rinnovare la questione, se non ci possa essere una ragione naturale, e dunque un diritto razionale, per l’uomo e la sua esistenza nel mondo. Un simile discorso dovrebbe oggi essere interpretato e applicato interculturalmente». J. Habermas – J. Ratzinger, Ragione e fede…, cit., p. 76.
(10)
«La Corte federale tedesca ha affermato che l’esposizione del crocifisso in un’aula pubblica viola la libertà di coscienza e di religione dell’individuo garantita dall’articolo 4, comma primo, della Legge Fondamentale. La libertà di coscienza dell’individuo, infatti, va considerata prioritaria rispetto ai diritti educativi dello Stato – nel caso del Land della Baviera che aveva disposto l’affissione obbligatoria del crocifisso in aula motivandola come una esigenza identitaria del popolo bavarese. Va precisato che la Corte non ha affatto dichiarato “incostituzionale” il crocifisso nell’aula scolastica né ha imposto alcuna restrizione alla espressione religiosa come tale. Ha semplicemente ribadito il principio della tutela dei diritti personali dell’individuo di contro ai diritti (identitari) di una comunità, che non possono essere fatti valere in modo impositivo». G. E. Rusconi, op. cit., p. 175. Inoltre si vedano le pp. 49-50.
(11)
Lontano da impostazioni del genere G. E. Rusconi ha svolto brillanti considerazioni andando ad affrontare, io credo, il nodo sostanziale della questione, rappresentato dalla capacità dello Stato di esercitare, rispettoso del pluralismo presente nella società, la propria visione laica. «Alla capacità della religione-di-chiesa italiana – scrive – di trovare posto sulla scena culturale e mediatica corrisponde un impoverimento teologico, una sorta di de-teologizzazione del suo messaggio religioso a favore della pura raccomandazione morale. […] L’apparente successo di questa operazione è pagato con l’appiattimento teologico, mimetizzato dalla ripresa della ritualità, degli aspetti cerimoniali e culturali tradizionali. […] Si assiste ad un progressivo utilizzo dell’apparato teologico-dogmatico-rituale in funzione quasi esclusiva della dottrina morale e della sua pastorale». G. E. Rusconi, op. cit., pp. 10-11.
(12) A ragione Rodotà sostiene che «sembra quasi che l’umanità, vissuta fino a ieri al riparo delle leggi di natura, scopra luoghi dove l’irrompere improvviso della libertà si rivela insopportabile. Si rivelano così aree dell’esistenza che dovrebbero comunque essere “normate”, perché la libertà di scegliere, dove prima era solo caso o destino, spaventa, appare come un pericolo o un insostenibile peso. Se cadono le leggi della natura, l’orrore del vuoto che esse lasciano dev’essere colmato dalle leggi degli uomini». S. Rodotà, La vita e le regole, Milano, 2006, p. 15.
(13) Nella sua introduzione Bosetti, riferendosi ad Habermas, sostiene che il filosofo francofortese faccia appello «ad un supplemento di virtù politiche che sono alimentate da una società civile, dove devono avere le loro radici. E queste virtù sembrano richiedere qualche cosa di più rispetto alla pura razionalità degli esseri umani: una dotazione di solidarietà e coesione rispetto alla quale si affaccia la candidatura della religione a dichiararsene produttrice […]. Habermas sembra chiedersi, e chiederci: ma quale soggetto politico può oggi contendere ai religiosi […], questo spazio di intervento che ci appare moralmente così necessario?». G. Bosetti, cit., in op. cit., pp. 33-34. Personalmente ritengo che una simile posizione abbia dei presupposti impliciti di cui si deve tener conto. Sul piano economico-sociale essa si tradurrebbe, io credo, in una sorta di capitalismo caritatevole, dove la carità sarebbe affidata ed esercitata, appunto, dalla religione. In questa visione la politica sembrerebbe poter coincidere soltanto con il suo ruolo meramente amministrativo e procedurale. Alla base di questa concezione penso vi sia una cristallizzazione della storia in virtù della quale si viene a riconoscere l’assoluta insuperabilità, ma pure radicale immodificabilità, di un certo orizzonte economico, sociale e antropologico strutturatosi nel corso dei secoli.
(14)
J. Habermas – J. Ratzinger, Ragione e fede…, cit., p. 68.
(15)
Questo sembra essere anche il punto di vista espresso da Habermas quando osserva che «nella società post-secolare si impone il riconoscimento del fatto che “la modernizzazione della consapevolezza pubblica” coinvolge e rende riflessive mentalità, religiose e laiche, asincrone. Entrambe le parti possono dunque prendere sul serio i reciproci contributi su temi controversi nell’opinione pubblica politica anche per motivi cognitivi, se intendono insieme la secolarizzazione della società come un processo di apprendimento complementare». J. Habermas – J. Ratzinger, Ragione e fede…, cit., p. 59. Per una critica pertinente e acuta delle tesi habermasiane si veda G. E. Rusconi, Non abusare…, cit., pp. 58 sgg. In particolare quanto esposto a p. 63.
(16)Il riconoscimento prevede certamente tanto il momento dell’accettazione quanto quello della critica che le differenti posizioni devono poter muovere l’una all’altra.
(17)
Cfr. G. E. Rusconi, Non abusare…, cit., pp. 8-9.
(18)
Su questo discorso Bosetti, richiamandosi alla clausola condizionale del Rawls di Liberalismo politico, ha scritto che «i sostenitori di politiche ispirate da dottrine comprensive ragionevoli devono […] adattarsi all’idea che al momento di decidere valgono gli argomenti che appartengono a un’area comune, pubblica, un’area dove sono in gioco quei valori e quegli argomenti che intersecano quelli degli altri, un’area dove dottrine comprensive diverse trovano un’area di sovrapposizione […], un’area di ragionevole consenso. […] Il cattolico può certamente argomentare contro certi sviluppi della ingegneria genetica, ma se vuole farlo nell’esercizio dell’uso della ragione pubblica per proporre o modificare una legge deve usare argomenti propriamente politici non argomenti di fede». G. Bosetti, cit., in op. cit., pp. 28-29.
(19)
Osserva Rusconi come sia di primaria importanza operare una precipua distinzione «tra la “sfera pubblica” in generale, che rimane aperta incondizionatamente al confronto di tutte le posizioni, e il “discorso pubblico” in senso proprio e specifico, che mira strategicamente alla decisione politica. È qui che va denunciato l’uso – soprattutto implicito, surrettizio, allusivo – di argomenti religiosi in ambiti deliberativi che portano alla produzione di leggi. Dovendo valere per tutti i cittadini, le leggi vanno argomentate in termini laici. E così siamo di nuovo al concetto di laicità». G. E. Rusconi, Non abusare…, cit., p. 8.
(20)
In questo contesto la proposta di un’etica procedurale avanzata a suo tempo da Engelhardt appare, per certi versi, datata. Se da un lato, infatti, risulta valida la ricerca dell’accordo al fine di avviare un qualche processo di comprensione tra punti di vista differenti, d’altro canto la negoziazione da sola non sembra essere sufficiente a dotare l’etica di «una base procedurale ineludibile». La stessa idea di un’etica procedurale, se pur basata sul rispetto degli agenti morali coinvolti, non credo sia in grado di offrire una risposta soddisfacente al superamento della distanza che separa posizioni laiche e religiose. H. T. Engelhardt, Manuale di bioetica, Milano, 1991, pp. 52-58.
(21)
Come ha giustamente scritto Rusconi si tratta di riconoscere che «il criterio-base della laicità consiste nella autonoma determinazione da parte dell’individuo delle norme di comportamento morale e quindi della loro istituzionalizzazione, in vista della creazione di un ethos pubblico». G. E. Rusconi, Non abusare…, cit., p. 14.
(22)
G. E. Rusconi, Ibidem, p. 12. Cfr. S. Rodotà, La vita…, cit., p. 145.
COMMENTI
L'articolo di Francesco ha l'indubbio pregio di sviscerare in modo non banale il rapporto tra laicità e religione. La mia impressione, tuttavia, è che la sua idea di laicità sia piuttosto debole, e presti facilmente il fianco all'attacco dei fondamentalismi religiosi. In altri termini, credo che,
ancora una volta, finisca per essere una posizione idealista, come lui stesso en passant riconosce, quando dice che "Se l'obiettivo, non privo di utopia, è quello di un dialogo universale dell'umanità, il passaggio necessario dovrà essere costituito dal riconoscimento sostanziale, non solo formale, delle differenti posizioni in campo". Detta così, il "riconoscimento dell'alterità" rischia di divenire, a sua volta, un precetto morale, una speranza idealistica. Ciononostante, ritengo che il riconoscimento dell'alterità sia anche un nostro problema; del resto,
nelle scuole serie di comunicazione uno degli esercizi più importanti consiste nel sostenere - in modo convicente - le tesi dell'avversario: se si è davvero convincenti, allora vuol dire che si sono comprese tali tesi, ed in questo modo si può pensare di organizzare una controffensiva.
Ritengo che la tesi dell’articolo di Francesco sia debole perché non riconosce che il diritto positivo, che sta a fondamento della laicità, non discende da ALCUNA etica: si dice "positivo" proprio per questo, perché è posto dall'uomo, in contrapposizione con il diritto naturale
che, viceversa, era di emanazione divina, ed era a fondamento della legittimazione del monarca assoluto nell'ancien régime. La grande invenzione dello Stato liberaldemocratico borghese consiste proprio nel fatto che la legittimazione del potere è, nella teoria dei padri della democrazia ed in larga misura anche nella pratica, puramente burocratico-razionale, per dirla
con Max Weber. Laicità è l'assolutezza del diritto postulata da Kelsen, dove giusto è soltanto ciò che è iussum, cioè ciò che è stabilito per legge, e non iustum, ovvero moralmente giusto (su questo mi sa che ci eravamo già scannati, ehm, volevo dire confrontati, a proposito del famigerato Palamas). D'altra parte, il potere giudiziario basato su processi proceduralizzati e su un diritto positivo è indubbiamente una grande invenzione culturale umana, che ha permesso di fare grande economia di violenza, poiché l'istituzionalizzata terzietà del giudice si sostituisce alla vendetta.
Sostenere, viceversa, la necessità di trovare un compromesso tra etiche diverse è debole perché, come Francesco ha peraltro argomentato a fondo, è sostanzialmente impossibile. Inoltre, questo presterebbe il fianco alla cosiddetta "ingerenza" della Chiesa: essendo portatrice dei suoi precetti morali, perché non li dovrebbe sostenere con forza e vigore affinché abbiano un peso sempre maggiore nel compromesso da ricercarsi con le "altre posizioni in campo"? Mi si potrà obiettare che, in fondo, anche la produzione del diritto positivo è frutto di un compromesso tra le
varie forze in campo, che sarà verosimilmente, a sua volta, il frutto dei rapporti di forza esistenti. Ma è proprio la razionalizzazione e la proceduralizzazione della produzione di diritto che è garanzia di laicità e, infine, anche di democrazia. Una democrazia sostanziale e non formale, cioè di alta qualità, consente a tutte le minoranze di poter incidere in qualche misura nell'agenda politica, a prescindere da ogni riflesso etico. Viceversa, se il compromesso dovesse scaturire dal confronto tra diversi precetti morali, in assenza di un contesto democratico formalizzato, e quindi dotato di sue regole (=procedure), ne deriverebbe un inevitabile scontro basato sulla violenza, con la vittoria del più forte ed il soccombere dei più deboli, che dovranno sottostare agli altrui precetti morali. La vendetta sarebbe la conseguenza inevitabile.
In conclusione, quindi, il dialogo tra laicità e religione è semplicemente impossibile, perché la prima è la negazione (nel senso di fonte del diritto) di tutte le altre. Pertanto la laicità, come spesso bofonchiano a sproposito i cosiddetti "atei devoti", non è, a sua volta, una religione: si contraddistingue proprio per il fatto che non pone alcun fondamento etico al diritto positivo.
Andrea